Il paradiso di Cantor
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Il paradiso di Cantor
di Luciana de Bernart
– Babbooo! Mi potresti dare una mano?...Non ci capisco niente.
– Chiedi a mamma!
– Non c’è! E' uscita!
– È uscita?! E dov’è andata?
– Non lo so! Ha detto che aveva da fare. Che tornava verso le sette… Babbooo! Dai!
- Oh insomma! Cos’è che non capisci? Il fatto è che tu a scuola non stai attento alle spiegazioni, che pensi ad altro, e poi a casa non riesci a fare i compiti e bisogna starti sempre dietro.
Una storia di tutti i giorni: un padre disattento e un figlio poco più che bambino che cerca invano di avere un rapporto con lui. Evoluzione prevedibile: l’indifferenza del padre per il figlio genererà nel figlio risentimento, poi astio e, infine, col passare degli anni, una ostile diffidenza nei confronti del padre e di ciò che egli rappresenta e che pur rimane, segretamente dolente, in fondo al cuore di tutti i figli.
Proviamo a immaginare che cosa succede se modifichiamo un po’ il quadro.
Il babbo si siede accanto al figlio, pervaso di curiosità per la sua mente bambina:
- Qual’è il problema?
Il figlio sorride rincuorato e fiducioso come potrebbe esserlo un nano sulle spalle di un gigante:
- Insomma, ecco, questa caspita di scheda di approfondimento che ci ha dato la professoressa dice che c’è un matematico mezzo russo e mezzo tedesco che si chiama Cantor che a un certo punto scopre che i punti nello spazio sono tanti quanti quelli di un segmento piccolo quanto si vuole, rimane sbalordito e scrive a un amico: «Lo vedo, ma non ci credo!». Io già questa cosa non riesco neanche a immaginarla, figuriamoci! Ma non basta! Procedendo di questo passo, a quanto ho capito, ‘sto tizio arriva a immaginare una specie di insieme infinito di tutti gli insiemi, una cosa megagalattica che è nello stesso tempo maggiore e inferiore a se stessa. Poi arriva un altro tizio, un inglese, e gli dice che le cose non tornano, che la cosa megagalattica non sta né in cielo né in terra, e comunque non può avere significato in matematica perché è contraddittoria. Sembra finita qui, e invece no. Ne arriva un altro, un tedesco di nuovo, che protesta contro l’inglese e dice che “nessuno ci potrà scacciare dal paradiso che Cantor ci ha procurato”, e via di questo passo… Insomma a me pare una confraternita di pazzi frenetici che si accapigliano su assurdità, con l’unica eccezione, forse, dell’inglese…
– Russell…
– … Russell, appunto, il gladiatore…
– Il gladiatore?!
– Sì, Russell Crowe, è quello che ha fatto Il gladiatore…
– Ah, ah!
- Va bene, insomma lui! A me pare che fra tutti questi fosse l’unico che forse ci aveva un po’ di sale in zucca e se gli avessero dato retta, tutti si sarebbero dimenticati di Cantor e noi – io certo! – saremmo tutti più contenti…- Credi proprio?
- Puoi starne certo! E invece no!
- Credo che
– E ti pareva!
– Ha ragione perché io credo, proprio come lei, che sia più importante capire le radici della matematica che la matematica stessa… La matematica, come qualsiasi campo del sapere umano, non è una cosa che sta per conto suo… che so, una specie di codice di regole e leggi scritto da qualche parte nel cielo che bisogna imparare per poter applicare quelle leggi ed essere sicuri di essere sulla strada giusta. La matematica, come qualsiasi campo del sapere, è un prodotto della nostra mente e le sue radici stanno nella nostra mente, come nella nostra mente stanno le radici di tutto il sapere, scientifico e non. Queste radici anzi, in certo modo, sono la mente umana… La matematica è, se così possiamo dire, solo un ramo, se non, piuttosto, un modo d’essere o d’apparire dell’albero che viene fuori da quelle radici e che però può essere, ed anche è, in tanti altri modi.
– Hmm... Che albero strano! E perché dovremmo andare alle sue radici? A che serve?
– Serve per andare avanti, scoprendo come si è arrivati dove siamo. Serve per uscire dai recinti in cui tendiamo a rinchiuderci. Serve per riuscire a intravedere l’oltre. A livello di radici tutto si mescola, una diramazione s’intreccia all’altra inestricabilmente, e tutte si immergono nella profondità della terra e da lì traggono succo vitale…
– Dai, dai... torniamo a Cantor! Perché quello, il tedesco, parla di paradiso e dice “nessuno ci potrà scacciare dal paradiso che Cantor ci ha procurato”?
– Il “tedesco”, come dici tu, si chiamava Hilbert, David Hilbert, forse sarebbe meglio che lo ricordassi! Perché, vedi, i nomi servono alla memoria, la memoria li trasforma in figure e intorno a loro organizza, per aggregati di immagini significanti, quel sottosistema del paradiso di cui ogni uomo è portatore.
– Sottosistema?! Paradiso?! Quale paradiso? Che cos’è il paradiso?
– Qualcuno pensa che ogni mente individuale, ogni essere vivente, anzi, è una struttura che si forma e si modifica all’interno di una immensa e complicata struttura che è il sistema infinito dell’universo vivente. Il bello però è che tutto ciò che noi sappiamo di questo sistema infinito, anche il fatto che è infinito, cioè che non riusciamo e non riusciremo mai ad esaurirlo, è sempre e solo ciò che riusciamo a riflettere e a produrre nella nostra mente, per cui la mente di ciascuno di noi è insieme finita e infinita. La mente di ciascuno di noi, la mente individuale, è un sottosistema del paradiso che riflette in sé un’immagine in qualche modo totale del paradiso. Sai, nella Divina Commedia, nel Paradiso, appunto, Dante dice qualcosa di simile quando, nell’ultimo canto, cerca di descrivere la sua visione di Dio: “Nel suo profondo vidi che s’interna/ legato con amore in un volume/ ciò che per l’universo si squaderna “…
– Ma Dante è uno del Medioevo!
– Cosa vuol dire? È la stessa cosa! Quello che Dante riesce a pensare, a dire, da grande poeta, l’unico che abbia mai cercato di descrivere Dio, è quello stesso di cui noi ora stiamo parlando. Il paradiso è fatto da tutti noi ed è dentro ciascuno di noi… Il paradiso è il pensiero del vivente… e anche del non vivente perciò che di esso vive in noi…- E che cosa c’entra tutto questo con Cantor e con la sua Teoria degli Insiemi e con tutto quel casino lì, quello di cui ti dicevo all’inizio, del gladiatore Russell?
- Ti sembrerò un po’ matto ma io penso che “nel profondo” della teoria di Cantor, si può vedere “legato in un volume ciò che per l’universo si squaderna”...
- Il paradiso?
- Sì, il paradiso della mente.
- Aspetta, fammi capire! Qui nel libro sta scritto che Cantor a un certo punto, fa una importante distinzione all’interno dell’infinito in atto o infinito attuale e dice che ci sono due forme di infinito attuale che non vanno confuse, il Transfinito e l’Assoluto, e dice che “il primo corrisponde a un infinito attuale, sì, ma ancora accrescibile, il secondo a un infinito non accrescibile e, pertanto non determinabile matematicamente”, ma che significa tutto ‘sto discorso? Che significa che un infinito in atto è accrescibile? Se è infinito come fa ad essere accrescibile?
- Giusto! Forse il termine, detto così, è ancora troppo complicato! Forse sarebbe meglio dire sempre più sviluppabile o articolabile oppure mai esauribile… da parte del pensiero. Insomma, è come immaginare qualcosa di molto complesso, che ha una sua compiutezza ma che il pensiero non può mai finire di analizzare e determinare nella sua complessità. Ecco, io penso che la genialità e insieme la condanna di Cantor sia stata quella di pensare questo qualcosa, cioè il mondo, in termini matematici.
- Perché la condanna?
- Perché questo l’ha fatto diventare pazzo!
- Non capisco!
- Vedi, in genere noi pensiamo al cosiddetto “mondo”, cioè all’oggetto del pensiero in questo modo: è una… cosa che sta là, di fronte a noi, e che noi vediamo, studiamo, sezioniamo, ecc, ecc. ma che non finiremo mai di vedere sotto diversi punti di vista, di studiare più approfonditamente, di analizzare più minutamente, ecc. ecc. No?
- Sì, sin qui è chiaro!
- Ora però questa immagine del senso comune: “Io qui e il mondo là” comincia già a vacillare se io penso che io stesso sono dentro il mondo, che “io sono là” e non semplicemente nel senso spaziale ma in tutti i possibili sensi fisici, perché io sono una parte del mondo che mi circonda e sono legato ad esso da una quantità spaventosamente enorme di legami e, dunque, anche quella immagine iniziale “Io qui e il mondo là”, il mio pensarla in modo automatico, senza riflettere, quando mi sveglio la mattina, così, allo stesso modo in cui respiro, anche quella “è là”, cioè, fa parte del mondo.
- Già! Non ci avevo pensato…
- Ma la cosa si complica ancora di più se io penso che “il mondo è là” solo in quanto e perché io lo penso.
- Come sarebbe a dire?
- Eh sì! Come fai a dire tu che cosa e come sarebbe il mondo se non ci fosse nessuno che lo pensa? Non lo puoi dire! E dunque il fatto che esso sia “là” e ci appaia fatto in un certo modo è un prodotto del nostro pensiero. Quindi “il mondo” in realtà “è qui”, nella mia testa, e non “là”. Ciò non vuol dire che “là” non ci sia qualcosa, forse c’è, ma io non so cos’è.
- Oh babbo, che casino! Però quello che ancora non capisco è cosa c’entra Cantor con tutto questo e la critica che a Cantor faceva Russell. Cantor parlava di numeri e di insiemi numerici non di cose concrete e esseri viventi… Sono due cose diverse! No?
- Certo! È un’osservazione intelligente la tua! Però rifletti un po’… Che differenza, che tipo di differenza c’è nella tua immaginazione fra una cosa concreta, anzi, meglio, fra un essere vivente da una parte e un insieme numerico dall’altra?
- Beh… Non so come dire… Mi sembra che un essere vivente sia una specie di struttura dove ogni elemento sta in relazione con tutti gli altri… Un insieme numerico no!
- Bravo! Ma sono davvero due cose diverse, secondo te, o si tratta della stessa cosa vista da due punti di vista diversi?
- Cioè? Non capisco!
− Cioè che differenza c’è, secondo te fra dire, per esempio, “una coppia di sposi” e dire “due”?
- Che “due” è un… nome che va bene per qualsiasi insieme di due elementi, siano due mele, due cani, due quaderni, o anche un quaderno e una penna, per esempio, che sono due oggetti del tutto diversi…
- Cioè quando io dico “due” unifico, in qualche modo, in una classe, tutte le classi in cui io vedo o immagino due elementi a prescindere da qualsiasi relazione ci possa essere fra di loro. Basta che siano due elementi.
- ... Ah sì! Adesso ricordo! È proprio quello che ci ha detto
- E tu l’hai capita, vedo… da come mi hai risposto, no?
- Sì e No! Insomma il fatto è che quando io dico “due” per indicare, per esempio, te e mamma, dico molto poco, troppo poco…
- Sì, certo, ma è proprio perché dico molto, troppo poco che riesco a unificare tutte le classi “due” possibili e immaginabili. Che succederebbe ora se, dopo aver unificato tutte le classi “due” sulla base di quel “troppo poco”, io volessi riempire di “contenuto” le classi e avere, come dire, una visione d’insieme di esse, comprensiva del concreto di tutte le possibili relazioni “a due” fra tutti i possibili singoli elementi che posso immaginare?
- Uh! Sarebbe un casino!
- Appunto! E abbiamo solo considerato il numero “due”! Pensa un po’ cosa succederebbe con tutti i numeri possibili, e per numeri possibili intendo anche, naturalmente, i numeri frazionari, le potenze, i logaritmi, e chi più ne ha più ne metta…
- Aiuto! Non ce la si può fare, babbo! La mente non ce la fa!
- Appunto! È proprio per questo che la mente inventa l’astrazione, e l’astrazione matematica in particolare. Perché rimanendo legata all’immagine del concreto e alla sua complessità non riuscirebbe ad andare molto oltre il suo spazio quotidiano! L’astrazione l’aiuta ad andare oltre. È sempre il concreto però che, se pure in una immagine sempre più sfocata man mano che si allarga, resta il significato, ma direi anche l’elemento propulsore, la spinta all’elaborazione dell’astratto. È un po’ come nell’automobile. La prima marcia è la più potente e la più legata a tutti gli ingranaggi del motore e serve per spostare il veicolo a freddo ma non può andare oltre i dieci chilometri l’ora senza ruggire alla disperata; via via che si procede verso le marce più alte il motore è sempre meno vincolato e quindi la sua potenza può trasformarsi in velocità, ma ciò significa anche una sempre minore capacità di controllo della macchina da parte di chi guida, così che una frenata o un ostacolo improvviso può mandare tutto a carte quarantotto. Ora, la definizione di numero data da Russel è un po’ proprio come la spiegazione dell’ultima marcia, la quinta, che ci possono dare alla scuola-guida. Capisci?
- Sì! Certo che, però… insomma quella definizione è semplice ma, insieme, proprio per questo, misteriosa!
- Mi piace questo tuo giudizio: “semplice e misteriosa”! Mi spieghi meglio cosa vuoi dire?
- Voglio dire che è come… come quando un prestigiatore prende una cordicella e ci fa sopra un sacco di nodi e li stringe bene per mostrare che sono veri nodi, poi prende un fazzoletto, ci avvolge dentro la cordicella piena di nodi, fa un po’ di gesti eleganti per aria con quell’involto, poi lo apre, prende la cordicella coi nodi per i due capi e: Swarp! Come per incanto i nodi si sciolgono tutti! E uno dice: Che stupido! Come ho fatto a non accorgermi che i nodi erano finti? Ecco lui, il gladiatore Russel, a quanto ho capito è proprio uno così, uno che ti fa vedere che certi nodi, certe complicazioni, certi imbrogli che sembrano non avere né capo né coda, sono finti… che tutto è in realtà semplice, lineare, chiaro. No? Però rimane sempre il dubbio: i nodi della cordicella erano finti sin dall’inizio o è il prestigiatore che, senza che lo spettatore se ne accorga, ha sostituito la cordicella realmente annodata con un’altra falsamente annodata? È lì che è il mistero!
- Già, bello mio! È lì! Ed è un grande mistero! Perché quando sembra che la cordicella annodata della mente si sciolga come per incanto resta sempre il dubbio: quei nodi erano reali o illusori? Cioè: l’ambizione di fare “chiarezza” nei procedimenti mentali (che poi è una tendenza che c’è sempre stata nel pensiero, da che mondo è mondo) toglie davvero di mezzo ciò che è “oscuro” o contraddittorio dal punto di vista logico oppure semplicemente lo ripone da un’altra parte? E se, e quando, sembra che riesca davvero a ottenere questa presunta chiarezza, si è guadagnato o si è perso qualcosa?
- Ma tu cosa pensi? Pensi che i nodi siano reali o finti?
- Io, francamente, ho sempre pensato che i nodi fossero reali. Che i nodi della mente siano sempre reali. Con questo non voglio dire che non sia legittimo e forse anche utile ricercare nella mente un percorso lineare, cioè cordicelle senza nodi, è però meno legittimo, secondo me, gabellare quel percorso come l’unico possibile. Come tu hai intuito: Russel critica Cantor perché la sua “classe totale”, dice Russel, è logicamente e matematicamente inammissibile, illegittima: nella cordicella, cioè, c’è un nodo che non è un nodo. Ma lui, Russel, in realtà prende un’altra cordicella, che non ha o non prevede quel nodo e la mostra come se fosse quella di Cantor. Diciamo meglio, Russel dice, in pratica: « Il sistema della logica matematica è un sistema autoreferente con delle regole precise da rispettare, dei presupposti. Se tu, Cantor, vuoi parlare della “classe totale” in termini matematici commetti l’errore di violare le regole, di violare i presupposti del sistema ed entri in contraddizione. Quindi o parli della “classe totale” da non matematico, e io non ho niente da dire, oppure, se vuoi restare matematico, rinunci alla “classe totale”. Il che significa aver condannato Cantor alla pazzia. Non che ritenga Russel responsabile della pazzia di Cantor: è un certo modo di pensare, per sistemi chiusi, che emargina chi, magari senza averne precisa intenzione, rompe il recinto del sistema.
- Ma scusa, Cantor però se ne poteva anche fregare del giudizio di Russel e tirare avanti tranquillo per la sua strada.
- Forse no! Cantor era e si sentiva un matematico! È come quando un rappresentante dell’autorità ecclesiastica diceva a un mistico del Medioevo: o rinunci a parlare di Dio come stai facendo oppure sei un eretico e miscredente e ti brucio. Quel poveretto non si sentiva affatto eretico e miscredente, aveva solo un linguaggio e un sistema di significati che, pur nascendo all’interno dell’ortodossia, si era in qualche modo sviluppato verso nuove forme.
- E allora diventava pazzo…
- No, nel Medioevo non faceva in tempo! In genere veniva fatto fuori prima. In Età moderna, nella nostra “società aperta” come si dice, il rogo dell’eretico diventa interiore, diventa pazzia… Insomma il punto è che la logica di Russel, la logica matematica, come qualsiasi logica, per quanto coerente essa sia, non è l’unica logica possibile, non solo, ma non è neanche detto che la logica abbia il diritto di giudicare ciò che è legittimo e ciò che non lo è nell’ambito del pensiero. Tutt’al più, come qualcuno ha detto, può giudicare della coerenza: se, dati certi presupposti ci si è attenuti ad essi nel procedimento o no. Ma il fatto che un procedimento di pensiero non si sia attenuto ai presupposti che esso ha programmaticamente assunto all’inizio, può essere indizio della sua forza, non della sua debolezza, cioè magari del fatto che uno scienziato, un pensatore, ha, nel corso della sua ricerca, della sua riflessione, assunto, a un certo momento, per associazione mentale, e senza nemmeno rendersene conto, altri presupposti, innovatori, non immaginati prima, che gli hanno aperto nuove strade e le hanno aperte anche agli altri, capisci? E così è stato per Cantor.
- Insomma, tu dici, il paradiso di Cantor era veramente un paradiso! Aveva ragione quello lì… Hilbert!
- Io penso proprio di sì! La teoria degli insiemi infiniti di Cantor è il paradiso della mente letto in termini matematici, in termini estremamente astratti (cosa c’è di più astratto del numero?) ma perciò stesso – ed è questo che è affascinante della mente umana e di quanto di essa si esprime in certi aspetti della matematica – capace di riconvertirsi nel suo opposto, cioè in una delle più inquietanti e affascinanti rappresentazioni del concreto che ci sia mai stata offerta da un pensatore. Non so se ti sono stato utile…
- Sì, babbo, ma anch’io, però!
- Che vuoi dire?
- Che forse, se non c’ero io che ti rompevo le scatole, anche tu, tante cose non te le saresti neanche chieste! Eh?
- Ah, ah, sei proprio un rompiscatole! Ma sì, devo riconoscere che hai ragione.