Alcuni commenti al Lamento di un matematico di Paul Lockhart e agli interventi che ne sono seguiti
Alcuni commenti al Lamento di un matematico di Paul Lockhart e agli interventi che ne sono seguiti
di Maria Dedò
Innanzitutto voglio ringraziare la redazione di XlaTangente per aver dato corso alla mia proposta di tradurre e pubblicare il “Lamento” di Paul Lockhart, che un collega mi aveva segnalato dall’angolo di Devlin nel sito della MAA, come voglio ringraziare il sito di XlaTangente per continuare a dar conto del variegato dibattito che ne è nato. Gli argomenti toccati sono a questo punto davvero tanti e non mi pongo l’obiettivo di intervenire organicamente su tutti, ma mi limiterò a qualche osservazione sparsa.
Confesso che non riesco ad appassionarmi più che tanto alla discussione se la matematica è scienza o arte, se è bella o utile, se è dilettevole o faticosa. Forse, non la capisco. Non la capisco perché mi sembra che molti degli intervenuti abbiano attribuito a Lockhart delle affermazioni, o delle intenzioni, che io personalmente non ho letto nel suo articolo (né nel seguito: vedi http://www.maa.org/devlin/devlin_05_08.html); non la capisco, soprattutto, perché mi sembra che nessuna di queste interpretazioni sia antitetica rispetto alle altre e che sia quasi ovvio che la matematica è tutte queste cose; ed è molto altro ancora.
Dice Bartolini Bussi che apprendere è faticoso.
Sono perfettamente d’accordo: non si impara senza fare fatica; e - a volte - molta fatica.
Con una piccola precisazione, però, e che non mi pare di poco conto: chi impara deve voler fare questa fatica. Se viceversa questa fatica gli viene imposta, allora è totalmente inutile; magari il soggetto imparerà anche qualcosa, ma lo dimenticherà il giorno dopo; o, magari, imparerà a risolvere le equazioni con la x e non saprà risolvere quelle con la y (o altre analoghe perle che ognuno di noi ha nel cassetto…).
E se vogliamo ottenere che chi impara voglia fare la fatica indispensabile per imparare, il divertimento è sicuramente un alleato prezioso: non certo l’unica possibilità, ma una via maestra.
Due esempi.
Parto per il primo da alcuni commenti dei ragazzini (scuola primaria) all’attività dei giochi online proposti dal Centro matematita (http://www.quadernoaquadretti.it/giochi/):
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Questo lavoro è stato faticoso, ma ci è piaciuto molto perché dovevi ragionare.
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Quest’anno i giochi mi sono piaciuti molto. Sono stati una occasione per fare una spremuta di cervelli, perché alcuni erano molto difficili. Sono stati molto belli e divertenti per la loro complicazione.
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Oltre a pensare abbiamo dovuto essere pazienti...
(il grassetto è mio, le frasi sono riportate testualmente dai commenti dei bambini). Non quindi “ci siamo divertiti nonostante la fatica”, ma “ci siamo divertiti perché abbiamo fatto fatica”.
Come insegnanti non dobbiamo temere il gioco e il divertimento, che sono i nostri migliori alleati: il vero nemico dell’insegnante non è il divertimento, bensì la noia.
Secondo esempio: chi va in montagna (a piedi) fa fatica – e non poca. Se uno non si diverte, semplicemente non lo fa e guarda le montagne dal basso, (che pure possono essere tanto belle, come mi segnalava tempo fa qualcuno che non si diverte a camminare). Se uno si diverte, è pronto a far fatiche mostruose pur di guardarle (anche) dall’alto. Sono banalità, ma – a mio parere – non inutili.
Dice Spirito che “… la natura artistica del far matematica, …, è anche intrinsecamente aristocratica”; dice Criscuolo che “l’arte è materia solo per pochi”. Non capisco, o forse non usiamo la stessa definizione per la parola “arte”. Proprio pensando alla scuola di tutti e per tutti, è nella scuola di tutti e per tutti che a me piacerebbe pensare che i ragazzi possano essere esposti al maggior numero possibile di stimoli culturali, su tutti i vasti possibili fronti. E far “giocare” i ragazzi – tutti i ragazzi – con la poesia non vuol dire certo pensare ai pochi che diventeranno Montale, bensì ai tanti che da un lato, qualunque mestiere andranno a fare, per una volta nella vita avranno incontrato uno spunto ricco su questo fronte; e, dall’altro, giocando con i versi avranno magari imparato anche a gestire la lingua, e i tempi verbali, e la grammatica, magari assai di più che non attraverso centinaia di esercizi ripetitivi. E se si saranno anche insieme divertiti, la cosa non guasta…! Lo spunto “inutile”, proposto solo per la sua valenza culturale (l’arte per l’arte) finisce spesso per rivelarsi molto più utile delle proposte cosiddette utili. E credo che la stessa cosa possa valere in matematica.
Per inciso, io non ho letto nell’articolo di Lockhart una demonizzazione della matematica utile; semmai una sottolineatura del fatto che l’utilità non deve e non può essere l’unico parametro in base al quale scegliere cosa fare o non fare di matematica nella scuola preuniversitaria.
E questo mi sembra talmente ovvio da essere quasi banale.
Galuzzi e Rovelli dichiarano poi che, nell’esempio portato da Lockhart, “la ragione per la quale la rotazione del triangolo sia preferibile a tracciare il raggio che congiunge il centro del semicerchio con il vertice dell’angolo retto risulta oscura”.
Non so quale fosse l’idea di Lockhart in merito (e non pretendo di farmene interprete…), ma posso dire perché a me questa ragione non pare affatto oscura, ed è un motivo del tutto banale: nel primo caso la costruzione è stata opera del ragazzo, nel secondo caso gli è stata imposta.
Tutto qui. Ma questa differenza, a mio parere, è abissale: un apprendimento del primo tipo ha molte più chances di fissarsi nella testa, andando a costituire un mattone e un punto di riferimento nel futuro; un apprendimento imposto, a cui il soggetto non ha dato autonomamente un senso e un significato, scivola via e scompare.
E sto dicendo “ha molte più chances”; non sto dicendo – ovviamente – che si tratti di una bacchetta magica miracolosa che risolva tutti i problemi, ma solo che costituisce una condizione necessaria (e ben lungi dall’essere sufficiente!) perché si possa sperare in un apprendimento stabile. E questa non è certo una novità: dopo tutto la maieutica risale al tempo di Socrate…!
Leggo su un libro [1] uscito recentemente: “…la matematica non è uno sport che si possa seguire da spettatori. Per apprezzarla, bisogna praticarla”; del tutto analoga è la frase di HSM Coxeter che il Centro matematita da tempo sta usando come slogan per i suoi laboratori (http://specchi.mat.unimi.it/users/specchi/notizie_labs.htm): “La capacità di studiare, comprendere e impadronirsi degli argomenti in ambito matematico è simile, sotto certi aspetti, al saper nuotare o andare in bicicletta, due abilità che non possono essere raggiunte stando fermi”. E mi sembra nello stesso spirito la frase di Lockhart quando dice: “a good teacher is someone who "puts interesting things in the room," so to speak” (“un buon insegnante è qualcuno che – per così dire – mette nella stanza delle cose interessanti”: http://www.maa.org/devlin/devlin_05_08.html).
È forse vero (forse!) che non è realistico che tutto l’insegnamento si possa svolgere in questo modo, però ricerchiamo i momenti di questo tipo, creiamoli se ne abbiamo la possibilità, diffondiamoli e approfittiamone!
[1] Una certa ambiguità di Garav Suri e Hartosh Singh Bal, ed. Ponte alle Grazie, 2008